martedì 21 gennaio 2025

Stefano Iori. Nota di lettura di Maristella Diotaiuti.



 

Nota di lettura di Maristella Diotaiuti per il volume Il tocco dell’ignoto, di Stefano Iori, PeQuod Edizioni, 2023 con accenno al volume  Animali fantastici dell'ebraismo. Ziz, Léviathan, Behemoth, Shamìr, Aria, acqua, terra, fuoco, di Stefano Iori, Terra d’ulivi Edizioni, 2020, scritta in occasione della presentazione alle Cicale Operose.

 È un libro composito, dal punto di vista formale è un prosimetro, quindi con la compresenza di prosa e poesia, a metà strada tra poesia e saggistica-trattato filosofico, dove entrano, agiscono le varie anime di Iori, i suoi studi e i suoi interessi culturali che spaziano in ambiti molto vasti, ma che si appuntano soprattutto sulla poesia, la filosofia e la cultura ebraica. È un libro che sostanzialmente indaga il rapporto tra la ragione e l’ignoto, indaga il silenzio, il mistero, il nulla, il divino, elementi che ci trascendono, non immediatamente immanenti ma con i quali veniamo inevitabilmente a contatto, ci toccano appunto, per riprendere il termine di Iori.

Sono quei temi che hanno alimentato la curiosità di generazioni di poeti e filosofi di ogni credo, e aggiungerei anche degli agnostici. È un libro che mette in crisi, come deve fare un buon libro (crisi nella sua accezione originaria, etimologica, di scelta, discernimento e opportunità, di crescita, di rinascita, e in questo libro di spinte alla crescita e alla rinascita ce ne sono tante).

Per la sua complessità e il suo spessore, la lettura di questo libro è una preziosissima occasione di conoscenza, di arricchimento culturale e umano, perché sollecita a molteplici riflessioni e apre a sconfinamenti in ambiti e discipline magari lontane dal nostro orizzonte culturale. Quindi davvero ringrazio Iori per averci dato questa opportunità, per avermi dato questa opportunità.

Quindi è un itinerario, di pensiero ma non solo, una sorta di itinerarium mentis (– in deum sicuramente, nel senso di avvicinamento alla dimensione del sacro, del divino, ma anchein interiore homine, direbbe Agostino.

È un viaggio esistenziale e letterario che è di Stefano Iori ma che in realtà appartiene a ognuno di noi, come persone, come individui, ma anche, direi, come esseri politici, come cittadini. È un cammino, e non a caso Iori spesso cita Martin Buber, filosofo, teologo e pedagogista austriaco naturalizzato israeliano, e il suo libro importante Il cammino dell’uomo, in cui parla dell’uomo e del suo rapporto con se stesso, con gli altri uomini, con il mondo e con dio. Temi che Iori assume e sviluppa nella sua opera.

Perché il messaggio che questo libro sottende, al di là della sua letterarietà, è profondamente etico. Si tratta, cioè, di decidere come stare al mondo, come relazionarci con i nostri simili e le altre creature. E qui lo sguardo di Iori si fa politico, sociale, antropologico, allarmato e vigile sulla realtà, sul presente, sulla storia. A lui si deve, tra l’altro, l’idea che la vita è fondamentalmente non-soggettività, bensì intersoggettività, tanto da affermare: in principio è la relazione.

Nel suo libro, che Iori cita, Il cammino dell’uomo, Buber traccia l’itinerario per, verso la crescita, la maturità e l’autenticità dell’uomo che, secondo lui, passa attraverso il tornare a se stesso, un rientrare in sé ma anche per l’andare verso se stesso. L’uomo deve cioè fare della sua vita un cammino rispondendo alla domanda dove sei?, senza tentativi di nascondimento. Ogni uomo cioè è chiamato in causa individualmente, è chiamato a un atto di responsabilità verso la propria vita, prendendo coscienza che quel percorso è suo proprio, ed è del tutto particolare. È assumersi la responsabilità della propria vita, o meglio è rispondere alla vita e mettere a frutto i propri talenti, le proprie peculiarità. Non esiste una via unica, occorre invece scegliere la propria nel mondo futuro – dice un rabbino citato dall’autore – non mi si chiederà: Perché non sei stato Mosè?”, bensì: Perché non sei stato te stesso? Ognuno ha la sua via e, sceltala, deve perseguirla con risolutezza, e fino in fondo.

È necessario, dunque, cominciare da se stessi, con la coscienza che un uomo autentico contribuisce alla trasformazione del mondo solo attraverso la propria trasformazione. Il conflitto con gli altri ha sempre la radice in se stessi e solo nella propria trasformazione risiede la possibilità dell’autentica apertura alla relazione io-tu. Ecco, credo che sia questo il messaggio, o almeno uno dei messaggi, di fondo di questo libro di Stefano Iori. E direi che Iori non si è sottratto a questa chiamata etica di responsabilità.

Quindi questo libro è sì frutto di una cultura profonda e stratificata di Iori, (da una lunga consuetudine con la filosofia, con l’ebraismo) ma viene anche da un suo personale stare al mondo, uno stare vigile, quasi urgente, interrogante. Essere presenti alla vita è indispensabile per attingere all'oltre, all’ignoto, che ci riguarda. Infatti, credo anche che questa raccolta nasca proprio da questo, una constatazione, da uno sguardo, da un certo aver visto, da un presupposto, o meglio da un accadimento, da un taglio.

Sull’ignoto

Questo titolo è molto interessante: perché è dinamico, c’e’ dentro un’idea di movimento, un doppio movimento (quasi speculare, un gioco di specchi) sia nella parola ‘ignoto’, che significa l’inconosciuto, il mistero, troviamo quella particella ‘in’, che, sappiamo, nella grammatica italiana è una preposizione semplice e, tra gli altri, introduce il complemento di luogo, nelle sue varie declinazioni (moto al luogo, stato in luogo, moto per luogo) il che ci suggerisce che ‘ignoto’ ha in sé, ha dentro nel corpo della parola stessa questa idea del movimento, questa immagine della non staticità, per cui ravvisa questa idea non solo del muoversi verso, ma anche e soprattutto dell’entrare dentro, del penetrare: quindi penetrare il mistero, l’inconosciuto e l’inconoscibile.

Anche la parola ‘tocco del titolo implica l’idea del dinamismo: cioè è anche il mistero, l’ignoto che muove verso il soggetto pensante, (se il soggetto pensante va verso il mistero, anche il mistero, l’ignoto a sua volta va verso il soggetto pensante), quindi c’è una dialettica, un rapporto quasi dialogico. Mi ricorda l’immagine affrescata da Michelangelo sulla volta della cappella Sistina di dio e dell’uomo che tendono l’uno verso l’altro, e il richiamo al divino, al sacro non è per nulla casuale. Iori fa continuamente riferimento al divino, è uno dei grandi indagati da Iori. E il ‘tocco’ dell’ignoto mi rimanda al soffio divino che infonde la vita. E secondo me, essere toccati dall’ignoto, percepire l’inconosciuto, è uno stato di grazia.

L’ignoto conosciuto e l’ignoto-ignoto

Ma se scendiamo più a fondo sul concetto dell’ignoto, allora dobbiamo chiederci di quale ignoto si parla? L’ignoto conosciuto? O il doppiamente ignoto, l’ignoto-ignoto?

Cioè ci sono cose che sappiamo di non sapere (e questo è l’ignoto conosciuto) e cose che non sappiamo di non-sapere (ed è l’ignoto-ignoto). Ad esempio: sappiamo che ci sono, esistono libri che non conosciamo perché non li abbiamo letti, ma ci sono poi altri libri di cui ignoriamo esistenza e che non leggeremo mai, e questa è una doppia ignoranza, se così si può dire. È un po’ ribaltare l’assunto di Socrate, e dire: “io non so di non sapere”. Questo ignoto-ignoto, l’ignoto profondo, è sicuramente più inquietante, ma anche più intrigante, perché i confini dell’ignoto-ignoto sono infinitamente estesi, ma che, forse, è molto molto più stimolante, perché la scommessa è quella di erodere volta per volta i suoi confini. Il piacere e l’eccitazione sta proprio nel trovare quello che non cercavi, che però non è la semplice ‘serendipity’ (cioè la capacità o la fortuna di fare per caso inattese e felici scoperte), perché questa avviene comunque dentro un certo schema cognitivo, dentro un percorso, come dire, già segnato. Ma l’ignoto-ignoto richiede un’altra strategia, richiede proprio il perdersi, il correre il rischio di perdersi, lasciarsi andare alla ricerca di ciò che non si conosce, di ciò che è fuori dagli schemi, uscire continuamente dal sentiero già più volte percorso, con la mente aperta e pronta a cogliere le anomalie, l’imprevisto.

Sulla illusione e la meraviglia: è chiaro che di fronte all’ignoto, la prima reazione dell’uomo è quella di smarrimento, di paura, di angoscia, l’uomo è un essere finito e in quanto tale non riesce a concepire l’infinitezza, e quindi si ritrae di fronte all’ignoto, si immobilizza, ma nello stesso tempo ne è attratto, prova anche una sensazione di vertigine, di attrazione, ed è interessante la risposta, la reazione che Iori proprone a scongiurare questo immobilismo: l’illusione: che non è l’inganno, ma che Iori definisce come un’esperienza della mente che si sviluppa fuori dall’omologato: è il pensare fuori dal coro, ma anche l’atto di inseguire un desiderio. L'illusione è strumento di speranza e desiderio. Illudersi diventa una cosa sana, se si esce col pensiero al di fuori degli schemi. E che Iori collega poi a un’altra parola-chiave nel testo, o nodo concettuale, a seconda di come lo vogliamo chiamare, che è  meraviglia che Iori definisce nel prologo: meraviglia sottile che nasce dalla risposta (urgente, necessaria, responsabile) al tocco silente dell’ignoto; e nella poesia successiva: viene in punta di piedi / dopo il primo morire .

Questa meraviglia è il thauma greco, da cui Aristotele faceva nascere la filosofia, che non è la semplice meraviglia, come erroneamente viene tradotto il termine, ma piuttosto l’angosciante stupore, lo sgomento che l’uomo prova di fronte all’ignoto, all’inconosciuto e l’inconoscibile, di fronte alle cose dell’esistenza. È lo sgomento nello scoprire il divenire di tutte le cose, la paura di fronte alla consapevolezza che il mondo, e noi con lui, è sottoposto ad un ciclo continuo di nascita e morte, e allo sgomento segue la volontà di trovare un rimedio alla fine, al nostro scivolare nel nulla. E questo thauma, questa meraviglia, insieme alla energia dell’illusione, permette di attivare uno sguardo sempre nuovo sulle cose, permette di attivare l’immaginazione e i sensi, le percezioni e permette di morire continuamente a noi stessi, ai nostri sopori, alle nostre indifferenze, alle nostre certezze, ai nostri concetti e preconcetti, e permette di ridefinirci continuamente, di nascere e rinascere più volte, come diceva Maria Zambrano (che spesso cito), anche Iori dice dopo il primo morire.

Zambrano ha elaborato una filosofia della nascita, e propone di abbandonare la tradizionale terminologia che definisce gli umani come esseri «mortali», comuni «mortali», per restituire loro la dignità delle creature «natali». Nati non solo una volta, non si nasce una sola volta per tutte, ma siamo continuamente nascenti, si rinasce continuamente a contatto con gli eventi della storia che capitano. Ogni giorno dobbiamo ricominciare a vivere, scegliere, lavorare, amare, e dunque ritornare incessantemente a rifare l’azione di nascere. È un “andare nascendo”.

Così Zambrano scrive“sembra che dover rinascere sia condizione della vita umana; dover morire e resuscitare senza uscire da questo mondo”.  Maria Zambrano parla di ‘dis-nascere”, scrive: disnascere significa disfarsi dell’origine, della nascita, di un fatto accaduto che non possiamo più cambiare; disnascere è avere accesso al sogno e alla memoria, alla parte più autentica di noi».

Tema del silenzio (pag. 15 – 49):

Un altro importante nodo teorico e poetico di Iori presente in questo libro (e probabilmente pervasivo di tutta la raccolta) è quello del silenzio. Perché ci si possa rendere disponibili al tocco dell’ignoto, e alla magia della meraviglia, e quindi alla rinascita o meglio alle rinascite, anche della parola, occorre entrare nel silenzio, ritrovare la dimensione del silenzio. Perché è nel silenzio che, come Iori scrive a pag. 37, la realtà (quella inattesa e sorprendente) viene alla luce. E in una poesia (pag. 18), scrive: Il silenzio e’ voce dell’ignoto che sta / immanente. E ancora, nella successiva: nel silenzio svuotato / l’assenza risuona // voce del nulla.

Iori individua anche un silenzio in cui si manifesta il divino, in cui il profeta Elia trova dio, come si racconta nei libri dei profeti e dei re, è un silenzio definito voce di silenzio sottile”, il silenzio che rompe il rumore, che in lingua ebraica è espresso con la parola “demama”, perché (come ho già espresso altrove) l’ebraico ha più parole per esprimere, significare i diversi modi del silenzio – come dice la scrittrice e traduttrice Elena Loewenthal che affronta la questione dal punto di vista linguistico.

Il tema del silenzio credo che sia uno dei più affascinanti e più dibattuti di tutti i tempi, tutti si sono interrogati sul silenzio, almeno una volta nella vita. Chiunque abbia lavorato con la parola si è dovuto necessariamente domandare cosa fosse il silenzio. È uno dei quesiti apparentemente più semplici, ma che quando cerchi di rispondere nascono sempre nuove domande, come una matrioska escatologica senza fine, la cui risposta termina sempre con un punto interrogativo. Come dire il silenzio ha sempre l’ultima parola. Ecco, questa domanda così complessa se l’è posta anche Iori, naturalmente, e per darsi una risposta (sapendola sempre parziale e approssimativa) si è rivolto ancora una volta alla cultura ebraica , alla lingua ebraica, e in particolare:

- ai libri dei profeti o dei re, con la vicenda del profeta Elia, individuando il silenzio biblico, cioè come il luogo dell’incontro con dio, il luogo dove dio si rivela. È questo il silenzio che rompe il rumore, perché Elia non trova dio nel rumore del vento o del tuono o del fuoco.

- allo studioso, teologo, esegeta francese André Neher (in esilio della parola)  

- e alla scrittrice e traduttrice Elena Loewenthal che affronta la questione dal punto di vista linguistico, un approccio molto interessante perché sottolinea la circostanza che in italiano esiste una sola parola per esprimere il silenzio, noi consideriamo il silenzio in un’unica accezione, cioè “assenza di suono”, mentre l’ebraico ne ha perlomeno tre, conosce almeno tre radici semantiche per dire ‘silenzio’: sheqet = assenza di suoni, il silenzio della quiete; lishtok= il silenzio imperativo, quello che si impone; dom = il silenzio abissale, cosmico, che fa paura, è quello che c’era prima che dio lo spezzasse parlando e creando le cose nominandole, dicendole. Ma da questo silenzio deriverebbe un altro silenzio espresso dalla parola: demama, che è una versione più conciliante, perché aggiunge la desinenza femminile che nell’ebraico si usa per dare una sfumatura di grazia alle parole maschili, e questo silenzio è il silenzio in cui il profeta Elia trova dio, che non è assenza di suoni, ma anzi è una voce di silenzio sottile.

Ecco, è questo il silenzio su cui si sofferma Stefano Iori,

Tema della parola, del linguaggio: pag. 23 – 43

Strettamente correlato al silenzio è la “parola”, il linguaggio, la parola che spezza, interrompe il silenzio. Tra l’altro Iori in una pagina del libro (p.49) parla del silenzio come cassa di risonanza per ogni cosa e quindi anche per la parola. Il silenzio sostiene la responsabilità della parola. Ma poi è la parola che mette al mondo il mondo, e lo ricrea continuamente. Come ci dicono i testi sacri (la bibbia) dio ha creato le cose dicendole, nominandole. tutta la creazione è avvenuta attraverso la parola (tranne l’uomo che è una creazione di seconda mano, ricavato dalla polvere della terra). Tra l’altro, sempre attingendo alla spiritualità ebraica, questa volta hassidica, ho letto (purtroppo non ricordo dove) che il fondatore del chassidismo Besht, abbreviazione di Baal Shem Tov, insegnava che un individuo nasce con un numero stabilito di parole. Quando sono stare tutte pronunciate quell’individuo muore. Ogni parola che pronunciamo ci avvicina alla morte quindi dovremmo usarle con attenzione, non sprecarle in un chiacchiericcio inutile (del quale oggi siamo inondati). Dovremmo chiederci, ogni volta che stiamo per utilizzare una parole, se vale la pena di morire per essa! Quindi la parola che crea la materia, il reale.

Tema del rapporto filosofia-poesia: pag. 43 e anche pag, 23

Come dicevamo all’inizio, quest’opera si compone di poesie e di testi filosofici, quindi Iori attinge a queste due forme espressive, costringendole, diciamo così, a procedere unite ma parallele, senza possibilità di una sintesi, ma anzi avendo cura di farne emergere le specificità, le differenze. una scelta veramente feconda di esiti, perché alla fine si ha la netta percezione che non si possa prescindere né da una né dall’altra forma, entrambe indispensabili e percepite come inscindibili.

Questa del rapporto poesia-filosofia è un’antica questione , posta già da Platone, rivista da Aristotele, e indagata variamente nel corso del tempo, con esiti diversi. In una pagina (pag. 43) Iori scrive: Il destino del poeta è quello di accogliere la realtà e l’irrealtà. Il noto e l’ignoto, il limite e l’illimitato, il senso e il non senso. E poi aggiunge : Il suo cammino è così allineato a quello del filosofo. Diversamente cadenzato, appena scostato, ma il traguardo è davvero simile, forse il medesimo.  E a pag. 23, scrive: poesia e filosofia si illuminano vicendevolmente poiché le loro ombre sono della stessa immateriale natura. forme del dialogo rivolte all’ignoto. incerte in quanto perennemente neo-nate. Forse non c’è alcuna verità, ma questo non significa che sia impossibile confrontarsi con ciò che non è propriamente reale e persino con il nulla. Però a pag. 23 Iori riporta anche una frase di Marianna Rascente, che dice: alla poesia tocca il compito di guadagnare ancora realtà viva. alla poesia l’arduo tentativo di traghettare il linguaggio e il mondo da una realtà storica, frantumata e assente, a una realtà  poetica del fare. È come se ad un certo punto ci fosse uno sbilanciamento verso la poesia, ritenendola anche più “attrezzata” rispetto alla filosofia, per dialogare con l’ignoto, il nulla, l’irrealtà e significarlo.

Essendo la parola poetica, capace di effetti sorgivi, rigenerativi, rifacendoti anche all’etimo per cui poiein significa proprio fare, costruire

Accostamento poesia–Talmud (pag. 61):

In un’altra pagina (p.61) Iori avvicina la poesia al Talmud perché entrambi non propongono né pongono né cercano verità assolute o date una volte per tutte, non cercano la verità che non esiste né preesiste, non cercano la risposta univoca, definitiva, ma pongono continue domande senza preoccuparsi delle risposte. In particolare (come più volte ho espresso), la poesia apre le crisi, anzi nasce dalla crisi, è essa stessa crisi (nel senso di taglio, crepa, ferita). Apre le crisi che non deve risolvere, apre ferite che non cura mai del tutto, devono rimanere sempre aperte, la poesia è il pharmakon greco: medicina e veleno contemporaneamente. La poesia anzi evidenzia le ferite, le espone e le sovraespone, come si fa con la tecnica del kinsugi di cui parla anche Iori in una poesia (di pag. 46), e non a caso lo dice in poesia. Perché la poesia non si esime dal dire delle imperfezioni, delle fragilità, delle rotture. Quindi qui Iori fa questo parallelismo fra poesia e talmud, leggo: c’è un’architettura peculiare [… ]si tratta dell’assoluto relativismo dei punti di vista sulla realtà.

Tema degli opposti, contraddizioni (pag 29):

c’è un altro tema che trovo molto interessante e intrigante: ed è il tema degli opposti, che anche in questo caso Iori rende iconicamente con le ricorrenti coppie oppositive, nei versi come nella prosa, e in particolare a pag. 29, scrive: Il gioco del pensiero è sempre imperfetto, ossimorico, dinamico … ombra nel dire che vive nel contrasto … la vita scorre nel ritmo altalenante di bene e di male, luce e ombra, estasi e rassegnazione. Fari oscuri, buio lucente dinnanzi a noi. Vita e morte. opposti che dialogano con la notte in pieno giorno:.

Il ‘due’, il ‘forse’ sono il motore della conoscenza. Il due e il forse sono fondamentale base del pensiero per scongiurare quel pensiero unico estremamente pericoloso. Trovo molto interessante questo disporsi del pensiero e della realtà in elementi oppositivi, perché prevede la categoria del negativo, accoglie l’idea della incertezza, della indeterminatezza, della finitezza, oggi tanto banditi dalla nostra società dal nostro vivere. Quindi è un invito a non temere il negativo del mondo, perché la bellezza del mondo, della vita sta proprio nei contrasti, nelle differenze, anche nei conflitti tra queste, perché è importante aprire il conflitto: nel conflitto si coglie e si accoglie la complessità, la differenza e quindi la disponibilità ad aprirsi all’altro, a vederlo, e quindi mettersi in dialogo. Tra l’altro bisogna tener presente che la cultura ebraica tiene insieme gli estremi correlandoli strettamente. Quindi ci si chiede: può avere senso il bene se non rispetto al male? E cosi la luce rispetto alle tenebre, il silenzio rispetto alla parola, e così via. Quindi è nella contrattazione dialogica tra i due estremi che si gioca l’esistenza.

Beatitudine

Come dicevamo all’inizio sulla forma, l’architettura di questo testo di Iori, ecco, questo si è aperto con un prologo e si chiude con un epilogo, realizzando così una sorta di cortocircuito che testimonia il compimento del viaggio, del tragitto che porta Stefano Iori, uomo e poeta adesso uniti, un’unica identità, dopo aver attraversato tutta l’esperienza di pensiero e di scrittura, faticosa, accidentata, per soste e richieste di aiuto, alla filosofia, ai filosofi antichi e contemporanei, ai poeti, alla cultura e alla lingua ebraica, alla saggezza dei rabbini, arriva ad uno spazio nuovo, a una rinascita, in particolare alla figura del beato di cui parla Maria Zambrano in Filosofia e poesia (pag, 33), cioè a quello spazio di “beatitudine in cui la “meraviglia delle cose realizza “il miracolo della ragione”, e il culmine dell’immediatezza del sentire e il culmine della potenza della mente” coincidono (sono parole di Zambrano).

E Iori, in una incredibile coincidenza, in un verso della penultima poesia della raccolta, scrive: spengo ogni affanno … (ecco la beatitudine) saràstagione / di voce nuova (ecco la rinascita).

Ecco il cortocircuito: Iori ha chiuso il cerchio, è divenuto filosofo e poeta insieme, e anche coincidenza di autore e personaggio della sua opera. Ma mi piace pensarlo qui più poeta che pensatore. E non è un caso che abbia chiuso il suo libro con la poesia, perché mi piace pensare che qui Iori smetta i panni del filosofo, del pensatore e si faccia solo poeta. Perché il poeta corre sempre il rischio di perdersi, e di perdersi nell’ignoto-ignoto (di cui parlavamo prima), non ha paura della perdizione, entra nell’ignoto e si perde. Iori, cioè, si è lasciato toccare dall’ignoto, non solo, si è addentrato nell’ignoto, correndo anche il rischio di perdersi, anzi è disposto a perdersi, ma stando, come dire, saldamente al comando del proprio disperdimento (essere il proprio mondo ma nello stesso tempo mutarlo, essere disposto a mutarlo)

Scrive Iori nella poesia finale: e si perde nel dopo, ma poi ritorna e ci porta i semi (poesia finale) di questa perdizione, (così come ha fatto Ungaretti nei Porti sepolti, o Caproni-minatore), ci porta l’esperienza di questa discesa nei pozzi profondi dell’essere e del pensiero, il poeta è capace della risalita e di riportarci questa sua esperienza in forma di poesia, di canto, lo dice anche Iori qui fiorirà un canto/ a inizio estate (penultima poesia)

Ecco, è questa, secondo me, la estrema, felice e fertile consegna di questo libro e di Stefano Iori.

 

ANIMALI FANTASTICI DELL’EBRAISMO

In chiusura di serata due parole su l’altro libro: uscito nel 2020, per Terra d’ulivi edizioni, è un libro particolarissimo, una affascinante e coltissima perlustrazione, con una assoluta novità tematica, in cui Stefano Iori svolge una disamina del bestiario ebraico, e non solo, una ricerca ragionata e documentata su figure mitologiche fantastiche, mostruose, privilegiando quattro figure in particolare: Ziz, Lèviathan, Behemoth, Shamìr, corrispondenti ai quattro elementi: aria, acqua, terra, fuoco. Facendo emergere soprattutto il loro valore simbolico rintracciabile anche oggi, valido ancora nell’attualità del nostro tempo.

Iori rintraccia la presenza di queste figure non solo nei testi, nei libri ebraici (soprattutto nelle citazioni talmudiche), ma anche nei libri di tutte le epoche e le aree geografiche, compresi i bestiari greci, quelli medievali fino al manuale di zoologia fantastica di Borges, Ma anche nelle arti visive, musicali, cinematografiche e nei fumetti, nonché nei videogiochi, cioè le moderne mitologie. Ma la cosa interessante in questo libro, tra le altre, e che lo collega poi anche all’altro di cui abbiamo parlato, è questo intreccio tra filologia e simbologia, tra rigore scientifico e creatività, che fa emergere il dato che l’invenzione, la creatività, è la leva imprescindibile per superare i limiti di ciò che conosciamo, cioè penetrare l’ignoto. E che la conoscenza non si raggiunge con la sola certezza scientifica, ma anche con l’intuizione che smagliando il noto, allarga sempre di più i suoi confini, i suoi limiti (lo abbiamo visto anche prima).

La creatività, normalmente concessa ai soli poeti e artisti (ma qui anche agli autori dei testi ebraici, soprattutto) trasporta il reale nell’illimitato, e ci mostra che la finitezza, ma anche la mostruosità, la deformità, risiede esclusivamente negli occhi di chi guarda.

L’altra cosa interessante è la dimensione, lo status di mostro, del monstrum, del diverso , il concetto di mostruosità che emerge dal libro: il monstrum latino è il prodigio. Non è solo la creatura portentosa, volentieri malevola verso gli uomini, ma in genere la manifestazione soprannaturale, il prodigio è un messaggio, un avvertimento — e tale è il mostro.

E ancora, il mostro è colui che viene additato, viene osservato come qualcosa di singolare; il mostro segna al suo apparire qualcosa che non riusciamo a comprendere, che mostriamo agli altri per affrettarci a sostenere di non avere nulla a che vedere con esso; allo stesso tempo, nel nostro stupirci della sua alterità, noi lo riconosciamo come nostro prossimo e vicino. Si tratta dell’accettazione della parte negativa dell’uomo che coesiste con la parte buona e bella, solo se rappresentata fuori da sé, ma anche accettare che nel cosmo, nel mondo abitino altri esseri dissimili da noi, diversi, altri da noi .

M- D.