Nota di lettura di Maristella Diotaiuti per il volume Il tocco dell’ignoto, di Stefano Iori, PeQuod Edizioni, 2023 con
accenno al volume Animali fantastici
dell'ebraismo. Ziz, Léviathan, Behemoth, Shamìr, Aria, acqua, terra, fuoco, di Stefano Iori, Terra d’ulivi
Edizioni, 2020, scritta in occasione della presentazione alle Cicale Operose.
È un libro
composito, dal punto di vista formale
è un prosimetro, quindi con la compresenza di prosa e poesia, a metà strada tra poesia e saggistica-trattato
filosofico, dove entrano,
agiscono le varie anime di Iori, i suoi studi e i suoi interessi culturali che spaziano
in ambiti molto vasti, ma che si appuntano soprattutto sulla poesia, la filosofia e la cultura ebraica. È un libro che sostanzialmente indaga il rapporto tra la ragione e l’ignoto, indaga il silenzio, il mistero, il nulla, il divino,
elementi che ci trascendono, non immediatamente immanenti ma con i quali
veniamo inevitabilmente a contatto,
ci toccano appunto, per
riprendere il termine di Iori.
Sono quei temi che hanno
alimentato la curiosità di generazioni
di poeti e filosofi di ogni credo, e aggiungerei anche degli agnostici. È un libro che mette in crisi, come deve fare un buon libro (crisi nella
sua accezione originaria, etimologica, di scelta, discernimento e opportunità,
di crescita, di rinascita, e in questo libro di spinte alla crescita e alla
rinascita ce ne sono tante).
Per la sua complessità e il suo spessore, la lettura di questo libro è una
preziosissima occasione di conoscenza, di arricchimento culturale e
umano, perché sollecita a molteplici
riflessioni e apre a
sconfinamenti in ambiti e discipline magari lontane dal nostro orizzonte
culturale. Quindi davvero ringrazio
Iori per averci dato questa opportunità, per avermi dato questa opportunità.
Quindi è un itinerario, di pensiero
ma non solo, una sorta di
itinerarium mentis (– in deum
sicuramente, nel senso di avvicinamento alla dimensione del sacro, del divino,
ma anche – in interiore homine, direbbe Agostino.
È un viaggio esistenziale e letterario che è di Stefano Iori ma che in
realtà appartiene a ognuno di noi, come persone, come individui, ma
anche, direi, come esseri politici, come cittadini. È un cammino, e non a caso Iori spesso cita Martin Buber, filosofo, teologo e pedagogista austriaco naturalizzato
israeliano, e il suo libro
importante Il cammino dell’uomo, in cui parla dell’uomo e del suo rapporto
con se stesso, con gli altri uomini, con il mondo e con dio. Temi che Iori
assume e sviluppa nella sua opera.
Perché il messaggio che questo libro sottende, al di là della sua letterarietà, è profondamente etico. Si tratta, cioè, di decidere come stare al
mondo, come relazionarci con i nostri simili e le altre creature. E qui lo sguardo di Iori si fa politico,
sociale, antropologico, allarmato e vigile sulla realtà, sul presente, sulla
storia. A lui si deve, tra
l’altro, l’idea che la vita è fondamentalmente non-soggettività, bensì intersoggettività,
tanto da affermare: in principio è la
relazione.
Nel suo libro, che Iori cita, Il
cammino dell’uomo, Buber traccia l’itinerario per, verso la
crescita, la maturità e l’autenticità dell’uomo che, secondo lui, passa
attraverso il tornare a se stesso, un
rientrare in sé ma anche per l’andare verso se stesso. L’uomo deve
cioè fare della sua vita un cammino rispondendo alla domanda dove sei?, senza tentativi di
nascondimento. Ogni uomo cioè è chiamato in causa individualmente, è chiamato a
un atto di responsabilità verso la propria vita, prendendo coscienza che quel
percorso è suo proprio, ed è del tutto particolare. È assumersi la
responsabilità della propria vita, o meglio è rispondere alla vita e mettere a
frutto i propri talenti, le proprie peculiarità. Non esiste una via unica,
occorre invece scegliere la propria nel mondo futuro – dice un rabbino citato dall’autore – non mi
si chiederà: Perché non sei stato Mosè?”,
bensì: Perché non sei stato te stesso?
Ognuno ha la sua via e, sceltala, deve perseguirla con risolutezza, e fino in
fondo.
È necessario, dunque, cominciare da
se stessi, con la coscienza che un uomo autentico contribuisce alla
trasformazione del mondo solo attraverso la propria trasformazione. Il
conflitto con gli altri ha sempre la radice in se stessi e solo nella propria
trasformazione risiede la possibilità dell’autentica apertura alla relazione
io-tu. Ecco, credo che sia questo il messaggio, o almeno uno dei messaggi, di
fondo di questo libro di Stefano Iori. E direi che Iori non si è sottratto a
questa chiamata etica di responsabilità.
Quindi questo libro è sì
frutto di una cultura profonda e stratificata di Iori, (da una lunga
consuetudine con la filosofia, con l’ebraismo) ma viene anche da un suo personale stare al mondo, uno stare vigile, quasi urgente, interrogante. Essere presenti alla
vita è indispensabile per attingere all'oltre, all’ignoto, che ci riguarda. Infatti,
credo anche che questa raccolta nasca proprio da questo, una constatazione, da
uno sguardo, da un certo aver visto, da un presupposto, o meglio da un
accadimento, da un taglio.
Sull’ignoto
Questo titolo è molto interessante: perché è dinamico, c’e’ dentro
un’idea di movimento, un doppio
movimento (quasi speculare,
un gioco di specchi) sia nella parola
‘ignoto’, che significa l’inconosciuto, il mistero, troviamo quella particella ‘in’, che, sappiamo, nella grammatica italiana è una preposizione semplice e, tra gli
altri, introduce il complemento di luogo,
nelle sue varie declinazioni (moto al luogo, stato in luogo, moto per luogo) il
che ci suggerisce che ‘ignoto’ ha
in sé, ha dentro nel corpo della parola stessa questa idea del movimento, questa immagine della non staticità, per cui
ravvisa questa idea non solo del
muoversi verso, ma anche e
soprattutto dell’entrare dentro, del penetrare: quindi penetrare il mistero, l’inconosciuto e l’inconoscibile.
Anche la parola ‘tocco’ del titolo implica l’idea del dinamismo: cioè è anche il mistero, l’ignoto che muove verso il soggetto pensante, (se il
soggetto pensante va verso il mistero, anche il mistero, l’ignoto a sua volta
va verso il soggetto pensante), quindi c’è
una dialettica, un rapporto
quasi dialogico. Mi ricorda l’immagine
affrescata da Michelangelo
sulla volta della cappella Sistina di dio e dell’uomo che tendono
l’uno verso l’altro, e il richiamo al divino, al sacro non è per nulla
casuale. Iori fa continuamente riferimento al divino, è uno dei grandi indagati
da Iori. E il ‘tocco’ dell’ignoto mi
rimanda al soffio divino che infonde la
vita. E secondo me, essere
toccati dall’ignoto, percepire l’inconosciuto, è uno stato di grazia.
L’ignoto conosciuto e
l’ignoto-ignoto
Ma se scendiamo più a fondo sul
concetto dell’ignoto, allora dobbiamo chiederci di quale ignoto si parla? L’ignoto conosciuto? O il doppiamente ignoto,
l’ignoto-ignoto?
Cioè ci sono cose che sappiamo di non sapere (e questo è l’ignoto
conosciuto) e cose che non sappiamo di
non-sapere (ed è l’ignoto-ignoto). Ad esempio: sappiamo
che ci sono, esistono libri che non
conosciamo perché non li abbiamo
letti, ma ci sono poi altri
libri di cui ignoriamo esistenza
e che non leggeremo mai, e
questa è una doppia ignoranza,
se così si può dire. È un po’ ribaltare
l’assunto di Socrate, e dire: “io
non so di non sapere”. Questo
ignoto-ignoto, l’ignoto profondo, è sicuramente più inquietante, ma anche più intrigante, perché i
confini dell’ignoto-ignoto sono infinitamente estesi, ma che, forse, è
molto molto più stimolante, perché la
scommessa è quella di erodere volta per volta i suoi confini. Il piacere e l’eccitazione sta proprio nel
trovare quello che non cercavi, che però non è la semplice ‘serendipity’ (cioè la capacità o la fortuna di
fare per caso inattese e felici scoperte), perché questa avviene comunque dentro un certo schema cognitivo, dentro un percorso, come dire, già segnato. Ma l’ignoto-ignoto richiede un’altra strategia,
richiede proprio il perdersi, il
correre il rischio di perdersi, lasciarsi
andare alla ricerca di ciò che non si conosce, di ciò che è fuori dagli schemi, uscire continuamente dal sentiero
già più volte percorso, con la mente
aperta e pronta a cogliere le
anomalie, l’imprevisto.
Sulla illusione e la meraviglia: è chiaro che di fronte all’ignoto, la prima reazione dell’uomo è quella di smarrimento, di paura, di angoscia, l’uomo è un essere finito e in quanto tale non riesce a concepire l’infinitezza, e quindi si ritrae di fronte all’ignoto, si immobilizza, ma nello stesso tempo ne è attratto, prova
anche una sensazione di vertigine,
di attrazione, ed è interessante la risposta, la reazione che Iori proprone a scongiurare questo immobilismo: l’illusione: che non è l’inganno, ma che Iori
definisce come un’esperienza della mente che si sviluppa fuori
dall’omologato: è il pensare fuori dal coro, ma anche l’atto di inseguire un
desiderio. L'illusione è strumento
di speranza e desiderio. Illudersi
diventa una cosa sana, se si
esce col pensiero al di fuori degli schemi. E che Iori collega poi a un’altra
parola-chiave nel testo, o nodo concettuale, a seconda di come lo
vogliamo chiamare, che è meraviglia
che Iori definisce nel prologo: meraviglia sottile che
nasce dalla risposta (urgente, necessaria, responsabile) al tocco silente
dell’ignoto; e nella poesia
successiva: viene in punta di piedi / dopo il primo morire .
Questa meraviglia è il thauma greco, da cui Aristotele faceva nascere la filosofia,
che non è la semplice meraviglia,
come erroneamente viene tradotto il termine, ma piuttosto l’angosciante stupore, lo sgomento che l’uomo prova
di fronte all’ignoto, all’inconosciuto e l’inconoscibile, di fronte alle cose dell’esistenza. È
lo sgomento nello scoprire il divenire di tutte le cose, la paura di fronte
alla consapevolezza che il mondo, e noi con lui, è sottoposto ad un ciclo continuo
di nascita e morte, e allo sgomento segue la volontà di trovare un rimedio alla
fine, al nostro scivolare nel nulla. E questo thauma, questa meraviglia, insieme alla energia dell’illusione, permette di attivare uno sguardo
sempre nuovo sulle cose, permette di attivare l’immaginazione e i
sensi, le percezioni e
permette di morire continuamente a noi
stessi, ai nostri sopori, alle nostre indifferenze, alle nostre certezze, ai nostri concetti e
preconcetti, e permette di ridefinirci
continuamente, di nascere e
rinascere più volte, come diceva
Maria Zambrano (che spesso cito), anche Iori dice dopo il primo morire.
Zambrano ha elaborato una filosofia della nascita, e propone
di abbandonare la tradizionale
terminologia che definisce gli
umani come esseri «mortali»,
comuni «mortali», per restituire loro
la dignità delle creature «natali».
Nati non solo una volta, non si
nasce una sola volta per tutte, ma
siamo continuamente nascenti, si rinasce continuamente a contatto con gli eventi della storia che
capitano. Ogni giorno dobbiamo
ricominciare a vivere, scegliere,
lavorare, amare, e dunque ritornare
incessantemente a rifare l’azione di nascere.
È un “andare nascendo”.
Così Zambrano scrive: “sembra che dover rinascere sia condizione
della vita umana; dover morire e resuscitare senza uscire da questo mondo”.
Maria Zambrano parla di ‘dis-nascere”,
scrive: disnascere significa disfarsi dell’origine, della nascita,
di un fatto accaduto che non
possiamo più cambiare; disnascere è
avere accesso al sogno e alla memoria, alla parte più autentica di noi».
Tema del silenzio (pag. 15 – 49):
Un altro importante nodo
teorico e poetico di Iori
presente in questo libro (e
probabilmente pervasivo di tutta la raccolta) è quello del silenzio.
Perché ci si possa rendere disponibili
al tocco dell’ignoto, e alla magia
della meraviglia, e quindi
alla rinascita o meglio alle rinascite,
anche della parola, occorre entrare nel
silenzio, ritrovare la dimensione
del silenzio. Perché è nel
silenzio che, come Iori scrive a
pag. 37, la realtà (quella inattesa e sorprendente) viene alla luce.
E in una poesia (pag. 18),
scrive: Il silenzio e’ voce dell’ignoto che sta / immanente. E ancora, nella successiva: nel silenzio svuotato /
l’assenza risuona // voce del nulla.
Iori individua anche un silenzio
in cui si manifesta il divino,
in cui il profeta Elia trova dio, come si racconta nei libri dei profeti e dei re, è un silenzio definito “voce di silenzio sottile”, il silenzio che rompe il rumore, che in lingua ebraica è espresso con la parola “demama”, perché (come ho già espresso altrove) l’ebraico ha più parole per esprimere,
significare i diversi modi del silenzio – come dice la scrittrice e
traduttrice Elena Loewenthal che
affronta la questione dal punto
di vista linguistico.
Il tema del silenzio
credo che sia uno dei più affascinanti
e più dibattuti di tutti i tempi, tutti si sono interrogati sul
silenzio, almeno una volta nella vita. Chiunque
abbia lavorato con la parola si
è dovuto necessariamente domandare cosa fosse il silenzio. È
uno dei quesiti apparentemente più
semplici, ma che quando cerchi
di rispondere nascono sempre nuove domande, come una matrioska escatologica senza fine, la cui risposta termina sempre con un punto interrogativo. Come dire il silenzio ha sempre l’ultima parola.
Ecco, questa domanda così complessa
se l’è posta anche Iori,
naturalmente, e per darsi una risposta
(sapendola sempre parziale e approssimativa) si è rivolto ancora una volta alla cultura ebraica , alla lingua
ebraica, e in particolare:
- ai libri dei profeti o dei re, con la vicenda del profeta Elia, individuando il silenzio biblico, cioè come il luogo dell’incontro con dio, il
luogo dove dio si rivela. È
questo il silenzio che rompe il rumore,
perché Elia non trova dio nel rumore del vento o del tuono o del fuoco.
- allo
studioso, teologo,
esegeta francese André Neher (in
esilio della parola)
- e alla scrittrice e traduttrice Elena Loewenthal che affronta la
questione dal punto di vista linguistico, un approccio molto interessante
perché sottolinea la circostanza che in
italiano esiste una sola parola per esprimere il silenzio, noi consideriamo il silenzio in un’unica
accezione, cioè “assenza di
suono”, mentre l’ebraico ne ha
perlomeno tre, conosce almeno
tre radici semantiche per dire ‘silenzio’: sheqet = assenza di suoni, il
silenzio della quiete; lishtok= il
silenzio imperativo, quello che si impone; dom = il silenzio abissale, cosmico, che fa paura, è quello che
c’era prima che dio lo spezzasse parlando e creando le cose nominandole,
dicendole. Ma da questo silenzio deriverebbe un altro silenzio espresso
dalla parola: demama, che è una versione più conciliante, perché aggiunge la desinenza femminile che
nell’ebraico si usa per dare una sfumatura di grazia alle parole maschili, e
questo silenzio è il silenzio in cui il
profeta Elia trova dio, che non
è assenza di suoni, ma anzi è una voce di silenzio sottile.
Ecco, è questo il silenzio su cui si sofferma Stefano Iori,
Tema della parola, del linguaggio: pag. 23 – 43
Strettamente correlato al silenzio è la
“parola”, il linguaggio,
la parola che spezza, interrompe il silenzio. Tra l’altro Iori in una pagina del libro (p.49) parla del silenzio come cassa di
risonanza per ogni cosa e quindi anche per la parola. Il silenzio sostiene la responsabilità della
parola. Ma poi è la parola che
mette al mondo il mondo, e lo ricrea continuamente. Come ci dicono i testi sacri (la
bibbia) dio ha creato le cose dicendole, nominandole. tutta la creazione è avvenuta
attraverso la parola (tranne
l’uomo che è una creazione di seconda
mano, ricavato dalla polvere della terra). Tra l’altro, sempre attingendo alla spiritualità ebraica, questa volta hassidica, ho letto (purtroppo non ricordo dove) che il fondatore del chassidismo Besht, abbreviazione di Baal Shem Tov, insegnava che un individuo
nasce con un numero stabilito di parole. Quando sono stare tutte pronunciate quell’individuo muore. Ogni
parola che pronunciamo ci avvicina alla morte quindi dovremmo usarle con attenzione, non sprecarle in un chiacchiericcio inutile (del quale oggi siamo
inondati). Dovremmo chiederci, ogni volta che stiamo per utilizzare una
parole, se vale la pena di morire per essa! Quindi la parola che crea la materia, il reale.
Tema del rapporto filosofia-poesia: pag. 43 e anche pag, 23
Come dicevamo all’inizio, quest’opera
si compone di poesie e di testi filosofici, quindi Iori attinge a queste due
forme espressive, costringendole, diciamo così, a procedere unite ma parallele,
senza possibilità di una sintesi, ma anzi avendo cura di farne emergere le
specificità, le differenze. una scelta veramente feconda di esiti, perché alla
fine si ha la netta percezione che non si possa prescindere né da una né
dall’altra forma, entrambe indispensabili e percepite come inscindibili.
Questa del rapporto poesia-filosofia è
un’antica questione , posta già da Platone, rivista da Aristotele, e indagata
variamente nel corso del tempo, con esiti diversi. In una pagina (pag. 43) Iori scrive: Il destino del poeta è quello di accogliere la realtà e
l’irrealtà. Il noto e l’ignoto, il limite e l’illimitato, il senso e il non
senso. E poi aggiunge : Il
suo cammino è così allineato a quello del filosofo. Diversamente cadenzato,
appena scostato, ma il traguardo è davvero simile, forse il medesimo.
E a pag. 23, scrive: poesia e filosofia si illuminano
vicendevolmente poiché le loro ombre sono della stessa immateriale natura.
forme del dialogo rivolte all’ignoto. incerte in quanto perennemente neo-nate.
Forse non c’è alcuna verità, ma questo non significa che sia impossibile
confrontarsi con ciò che non è propriamente reale e persino con il nulla. Però a pag. 23 Iori riporta anche una frase di
Marianna Rascente, che dice: alla poesia tocca il compito
di guadagnare ancora realtà viva. alla poesia l’arduo tentativo di traghettare
il linguaggio e il mondo da una realtà storica, frantumata e assente, a una
realtà poetica del fare. È come se ad un certo punto ci fosse uno
sbilanciamento verso la poesia, ritenendola
anche più “attrezzata” rispetto alla filosofia, per dialogare con l’ignoto, il nulla, l’irrealtà e significarlo.
Essendo la
parola poetica, capace di effetti sorgivi, rigenerativi, rifacendoti
anche all’etimo per cui poiein
significa proprio fare, costruire
Accostamento poesia–Talmud (pag. 61):
In un’altra pagina (p.61) Iori
avvicina la poesia al Talmud perché entrambi non propongono né pongono né cercano verità assolute o date una volte per tutte, non cercano la
verità che non esiste né preesiste, non cercano la risposta univoca,
definitiva, ma pongono continue
domande senza preoccuparsi delle risposte. In particolare (come più volte ho espresso), la poesia apre le crisi, anzi nasce dalla crisi, è essa stessa crisi (nel senso di taglio, crepa, ferita). Apre le crisi che non deve risolvere, apre ferite che non cura mai del
tutto, devono rimanere sempre aperte, la
poesia è il pharmakon greco: medicina e veleno contemporaneamente. La poesia anzi evidenzia le ferite, le espone e le sovraespone, come si fa con la tecnica del kinsugi di cui parla anche Iori in
una poesia (di pag. 46), e non a caso lo dice in
poesia. Perché la poesia non si esime
dal dire delle imperfezioni,
delle fragilità, delle rotture. Quindi qui Iori fa questo
parallelismo fra poesia e talmud, leggo: c’è un’architettura peculiare [… ]si tratta
dell’assoluto relativismo dei punti di vista sulla realtà.
Tema degli opposti,
contraddizioni (pag 29):
c’è un altro tema che trovo
molto interessante e intrigante: ed è il tema degli opposti, che
anche in questo caso Iori rende iconicamente con le ricorrenti coppie oppositive, nei versi come nella prosa, e in particolare a pag. 29, scrive: Il gioco del
pensiero è sempre imperfetto, ossimorico, dinamico … ombra nel dire che vive
nel contrasto … la vita scorre nel ritmo altalenante di bene e di male, luce e ombra,
estasi e rassegnazione. Fari oscuri, buio lucente dinnanzi a noi. Vita e morte.
opposti che dialogano con la notte in pieno giorno:.
Il ‘due’, il ‘forse’ sono il motore
della conoscenza. Il due e il forse sono fondamentale base del pensiero per scongiurare quel pensiero unico
estremamente pericoloso. Trovo molto interessante questo disporsi del
pensiero e della realtà in elementi oppositivi, perché prevede la categoria del
negativo, accoglie l’idea della
incertezza, della indeterminatezza,
della finitezza, oggi tanto
banditi dalla nostra società dal nostro vivere. Quindi è un invito a non temere il negativo del mondo, perché la bellezza del mondo, della vita sta proprio
nei contrasti, nelle differenze, anche nei conflitti tra queste, perché è importante aprire il conflitto: nel conflitto si coglie e si accoglie la
complessità, la differenza e
quindi la disponibilità ad aprirsi
all’altro, a vederlo, e quindi
mettersi in dialogo. Tra l’altro bisogna tener presente che la cultura ebraica tiene insieme gli estremi
correlandoli strettamente. Quindi ci si chiede: può avere senso il bene se non rispetto al male? E cosi la luce
rispetto alle tenebre, il silenzio
rispetto alla parola, e così via. Quindi è nella contrattazione dialogica tra i due estremi che si gioca
l’esistenza.
Beatitudine
Come dicevamo all’inizio sulla forma, l’architettura di questo testo di Iori, ecco, questo si è aperto con un prologo e si chiude con un epilogo, realizzando
così una sorta di cortocircuito che testimonia il compimento del viaggio,
del tragitto che porta Stefano Iori, uomo e poeta adesso uniti, un’unica identità, dopo aver attraversato tutta
l’esperienza di pensiero e di scrittura, faticosa, accidentata, per soste
e richieste di aiuto, alla
filosofia, ai filosofi antichi e contemporanei, ai poeti, alla cultura e alla
lingua ebraica, alla saggezza dei rabbini, arriva ad uno spazio nuovo, a una rinascita, in particolare alla figura del beato di
cui parla Maria Zambrano in Filosofia
e poesia (pag, 33), cioè a quello spazio di “beatitudine” in cui la “meraviglia
delle cose” realizza “il miracolo della ragione”,
e il “culmine dell’immediatezza
del sentire” e il “culmine della potenza della mente” coincidono (sono parole di Zambrano).
E Iori, in una incredibile coincidenza, in un verso della penultima
poesia della raccolta, scrive:
spengo ogni affanno … (ecco la beatitudine) saràstagione / di voce
nuova (ecco la rinascita).
Ecco il
cortocircuito: Iori ha chiuso il cerchio, è divenuto filosofo e poeta insieme, e anche coincidenza di autore e personaggio della sua opera.
Ma mi piace pensarlo qui più poeta che
pensatore. E non è un caso che
abbia chiuso il suo libro con la poesia, perché mi piace pensare che qui Iori
smetta i panni del filosofo, del pensatore
e si faccia solo poeta. Perché il poeta corre sempre il rischio di perdersi,
e di perdersi nell’ignoto-ignoto (di cui parlavamo prima), non ha paura della perdizione, entra nell’ignoto e si perde. Iori,
cioè, si è lasciato toccare dall’ignoto,
non solo, si è addentrato nell’ignoto,
correndo anche il rischio di perdersi, anzi è disposto a perdersi, ma stando, come dire, saldamente al comando del
proprio disperdimento (essere il proprio mondo ma nello stesso tempo
mutarlo, essere disposto a mutarlo)
Scrive Iori nella poesia
finale: e si perde nel
dopo, ma poi ritorna e ci porta i semi (poesia
finale) di questa perdizione, (così
come ha fatto Ungaretti nei Porti
sepolti, o Caproni-minatore),
ci porta l’esperienza di questa discesa
nei pozzi profondi dell’essere e del
pensiero, il poeta è capace
della risalita e di riportarci
questa sua esperienza in forma di poesia, di canto, lo dice anche Iori qui fiorirà un
canto/ a inizio estate (penultima poesia)
Ecco, è questa, secondo me, la estrema, felice e fertile consegna di questo
libro e di Stefano Iori.
ANIMALI FANTASTICI DELL’EBRAISMO
In chiusura di serata due parole su l’altro libro: uscito
nel 2020, per Terra d’ulivi
edizioni, è un libro particolarissimo,
una affascinante e coltissima
perlustrazione, con una assoluta novità tematica, in cui Stefano Iori
svolge una disamina del bestiario
ebraico, e non solo, una ricerca ragionata e documentata su figure mitologiche fantastiche, mostruose, privilegiando quattro figure in particolare: Ziz, Lèviathan, Behemoth,
Shamìr, corrispondenti ai quattro
elementi: aria, acqua, terra, fuoco. Facendo emergere soprattutto il loro valore simbolico rintracciabile anche oggi, valido ancora nell’attualità del nostro
tempo.
Iori rintraccia la presenza di queste figure non solo nei testi, nei
libri ebraici (soprattutto nelle citazioni talmudiche), ma anche nei libri di tutte le epoche e le aree geografiche, compresi i bestiari greci, quelli medievali fino al manuale di zoologia fantastica di Borges,
Ma anche nelle arti visive, musicali,
cinematografiche e nei fumetti,
nonché nei videogiochi, cioè le moderne mitologie. Ma la cosa interessante in questo libro,
tra le altre, e che lo collega poi
anche all’altro di cui abbiamo parlato, è questo intreccio tra filologia e simbologia, tra rigore scientifico e
creatività, che fa emergere il
dato che l’invenzione, la creatività, è la leva imprescindibile per
superare i limiti di ciò che conosciamo, cioè penetrare l’ignoto. E che la
conoscenza non si raggiunge con la sola certezza scientifica, ma anche con l’intuizione che smagliando il noto, allarga sempre di più i suoi confini, i suoi limiti (lo abbiamo visto anche
prima).
La
creatività, normalmente
concessa ai soli poeti e artisti
(ma qui anche agli autori dei testi
ebraici, soprattutto) trasporta
il reale nell’illimitato, e ci
mostra che la finitezza, ma anche
la mostruosità, la deformità, risiede esclusivamente negli occhi di chi guarda.
L’altra cosa interessante è la dimensione, lo status di mostro, del monstrum,
del diverso , il concetto di mostruosità che emerge dal libro: il monstrum
latino è il prodigio. Non è solo la creatura portentosa, volentieri malevola
verso gli uomini, ma in genere la manifestazione soprannaturale, il prodigio è
un messaggio, un avvertimento — e tale è il mostro.
E ancora, il mostro è colui che viene
additato, viene osservato come qualcosa
di singolare; il mostro segna al suo apparire qualcosa che non riusciamo a comprendere, che mostriamo agli
altri per affrettarci a sostenere di
non avere nulla a che vedere con esso; allo stesso tempo, nel nostro stupirci della sua alterità,
noi lo riconosciamo come nostro
prossimo e vicino. Si tratta dell’accettazione
della parte negativa dell’uomo che coesiste con la parte buona e bella, solo se rappresentata fuori da sé, ma
anche accettare che nel cosmo,
nel mondo abitino altri esseri
dissimili da noi, diversi, altri da noi .
M- D.